L’Amore dura meno di un pacchetto di preservativi

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Il pacco da tre è da poracci, da pessimisti, da gente con poca fantasia.

È un incontro occasionale, vada quello da sei. Non di più, non siamo mica fidanzati, chi lo sa se ci si rivede presto… o più.

Nella migliore dell’ipotesi ne vengono consumati due. Il pacco da tre andava benissimo, lo sappiamo tutti e due, l’abbiamo sempre saputo, ma è becero anche solo ammetterlo, come portarsi i preservativi da casa e non comprarli insieme se non si ha un’idea chiarissima di come andrà la serata.

Pacchetti di preservativi iniziati con qualcuno con cui non li finirai mai. Se ci penso mi fa strano. Negli ultimi anni è successo, non dico di no.

Nulla a che vedere con quella routine abitudinaria del radunare in auto gli spiccioli con il tuo fidanzato, insieme, prenderli cercando il rapporto quantità/prezzo migliore, consumarli con la tranquillità che solo ciò che conosci abbastanza bene sa dare, insieme, tenere il conto di quanti manchino alla fine, insieme.

Il sesso occasionale, o quello che gli assomiglia almeno un po’, è diverso: è domani forse non mi scriverai; domani forse ci ripenserai; sto facendo una cazzata; non mi piaci davvero; non so perché sono qui; non riesco a non pensare a quello stronzo di merda anche adesso; però hai il pisello più grande dell’ultimo e non baci nemmeno tanto male; forse è l’ultima volta che saremo nudi nello stesso posto; possiamo fare qualsiasi cosa tanto chi ti rivede più.

È far addormentare, volutamente, la nostra parte sentimentale, troppo stanca o delusa da essere perennemente sveglia e attiva, quando i pensieri sono come falene illuse che sbattono contro lampadine incandescenti, convinte che riprovarci e ritornare verso la luce non faccia così male. È egoismo puro; un egoismo sacrosanto, che chiunque dovrebbe provare, non per esercitare una pseudocattiveria gratuita, ma per ricordarci che siamo vivi, che siamo ancora animali a sangue caldo, che possiamo far finta di essere solo quelli, per qualche ora.

È come una passeggiata in montagna che ti lascia la testa leggera come un palloncino il giorno seguente ma che dopo due giorni si fa maledire per tutti i muscoli ancora doloranti.

Ovviamente parlo degli incontri consensienti tra due persone libere, nel mio elogio alla superficialità non sono compresi coniugi o simil tali a cui mentire, per quel che mi riguarda è già troppo difficile gestire una sola relazione per essere una fan del gestirne un paio contemporaneamente.

Non sto parlando della regola, parlo dell’eccezione: la regola è vivere pensando che prima o poi ti capiti una botta di fortuna e possa incrociare qualcuno interessante, coraggioso e anche relativamente sano di mente con cui intrecciare una stabile e duratura corrispondenza di amorosi sensi ; l’eccezione è cedere, non eccessivamente ma farlo, ogni tanto, alle lusinghe di qualcuno a cui le tue tette o il tuo culo stiano abbastanza simpatici e che, nei modi di fare, ti ispiri fiducia, simpatia ma soprattutto pensieri abbastanza agitati, anche solo per un po’.

Pensieri ridicoli, pensieri da adolescenti, pensieri colorati, pensieri preda degli ormoni.

È anche la magica arte che del saper dosare bene i gesti e le parole, specialmente in quei momenti imbarazzanti prima e, soprattutto, dopo. Non offendersi se ti viene data poca attenzione, non offendere dandone poca, non fermarti incantata a formulare pensieri gravi se non vuoi sentirti chiedere l’inevitabile: “a cosa stai pensando?” oppure tieniti delle risposte jolly generiche da usare in caso di emergenza, del tipo “qui vicino c’è un sito archeologico molto interessante di età romana/ domani devo fare la lavatrice/ fa umido la sera anche se siamo a maggio, eh?!?” 

Se questa fosse la regola mi sentirei svuotata. Ma così no. Bisogna solo essere abbastanza bravi da non far diventare quell’eccezione un’ossessione, bisogna un po’ mentire a se stessi, mettere in conto di essere lucidi anche quando non vorresti, per non far del male a te e/o a chi condivide questa botta di vita e questo pacchetto di preservativi da sei, che hai lasciato nella mia borsa, che forse non rivedrai mai, che forse non ci rivedremo mai, che forse chissà con chi altro finirà.

Ma soprattutto mai, e dico mai, se l’altro ti abbraccia dicendoti “stasera facciamo finta di volerci bene“, rispondere “ma io ti voglio già bene, non devo far finta“.

Non si può giocare con il cuore della gente se non sei un professionista, ma ho la cura”

 

 

 

La sindrome dell’ Acierrina

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“Io, poi, sono stata nell’ Azione Cattolica, non augurerei mai il male a qualcuno…”

“Potresti pregare Gesù affinché gliene faccia, tuttalpiù”.

Nella primavera del 1997 si sono succeduti un paio di avvenimenti che hanno irrimediabilmente segnato e condizionato la mia esistenza  forevah , per tutti gli anni a venire: mio zio Domenico mi regala un’audiocassetta e un cd di Lorenzo Cherubini e mia mamma mi iscrive all’Azione Cattolica. Tutto il resto è storia.

Quanto, sia Jovanotti sia l’associazionismo, abbiano deviato e condizionato la mia esistenza è ben visibile in quello che faccio, che dico, che penso. E dire che mio padre voleva iscrivermi agli scout, l’altro gruppo della nostra parrocchia, e io solo per ribellione alle imposizioni genitoriali ho preferito l’AC; pessima già da piccola, non c’è che dire.

Ho sentito alla radio che tutto quello che siamo, a livello di intelligenza emotiva, succede entro i nostri primi 15 anni, poi è solo un rimediare a quello che non doveva succedere ma è accaduto.

Ho frequentato assiduamente tutto il mirabolante mondo dell’attivismo cattolico fino al 2012, poi me ne sono completamente allontanata, ora ritorna, ad ondate. Succede che sei sul treno e ascolti divertita un ragazzo che racconta alle amiche di quando ad un campo scuola durante un momento di preghiera lui mangiasse, con la stessa solennità che solo un momento mistico saprebbe dare, pane e salsiccia sott’olio; succede che sei al centro di Roma e ricordi perfettamente tutte le gite e gitarelle fatte con il gruppo; succede che ti rivedi con quella tua amica che non vedi da gennaio e ti ritrovi a parlare delle nuove elezioni in diocesi; succede che le tue educatrici organizzino una cena/rimpatriata e ci vai con mille dubbi ma te ne torni a casa con la mascella che ti fa male per quanto abbia riso; succede che stanotte sogni di avere la gestione del gruppo giovanissimi, il mio unico pallino, per quanto riguardava il “fare carriera” in associazione.

Succede, lo fai succedere, almeno nella tua testa. In una provincia del cavolo come quella casertana le realtà parrocchiali salvano i ragazzi dall’apatia, fanno sviluppare un’emancipazione dalla famiglia durante i campi scuola, danno un’impronta mentale differente. So cosa vuol dire lavorare in team perché ho incominciato a “lavorarvici” a 8 anni, ho creato legami indissolubili, ho imparato l’iconografia dei santi, conosco un po’ la Bibbia, e sono una fan delle canzoni di chiesa. Sono cose che in un modo o nell’altro mi son servite anche quando il mio rapporto con il trascendentale era molto combattuto. Ora non riesco a credere che non ci sia nulla ma non posso piegarmi a quello che viene detto alle masse da certi preti balordi. Per me Gesù era una rockstar, comunista e “anticlericale” e da questa figura sono totalmente affascinata. Come lo sono di quei “preti di periferia che vanno avanti nonostante il Vaticano”. Essere prete, in fondo, se gli togli il celibato, è il miglior lavoro del mondo, peccato che il mondo ecclesiastico sia profondamente maschilista, perché le donne potrebbero risollevare e rivoluzionare questa chiesa sotto molti aspetti stagnante e ipocrita.

Ma no so se tornerò. Non lo so perché potrebbe essere un ritornare a un ambiente familiare per riesumare dei ricordi davvero belli (che, come gli anni andati, non torneranno più) e di questo ho molta paura, perché quello che più mi auguro, in questa vita, e di essere sempre una versione aggiornata di me stessa, manco fossi un sistema operativo.

La cosa divertente è che alla rimpatriata dell’altra sera, ad un certo punto, otto di noi su dieci hanno ammesso di aver desiderato iscriversi agli scout almeno una volta nella vita. E forse è questo quello che ci fotte. Mentre quelli se ne vanno in giro con i calzoncini e sono superconvinti ed orgogliosi di quello che sono, noi pensiamo sempre di aver sbagliato qualcosa.

E io tra l’orgoglio un po’ con i paraocchi e l’insicurezza perenne non so cosa sia meglio, eh.

Prometto

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Presentarmi alla visita dalla nutrizionista con dei calzini con degli hot-dog disegnati su avrebbe dovuto mettere le cose in chiaro. Invece questo gesto è stato il presagio che, in futuro, gli hot dog e tutto quello che c’è di più succulento in un puorco, avrei potuto vederli solo sui miei bei calzini amaranto, presi dal reparto maschile di HM, perché non ho ancora capito come mai in quello femminile è tutto un arcobaleno e unicorni svolazzanti. Abbiamo bisogno degli unicorni, sia ben chiaro; gli unicorni sono dei rinoceronti che ce l’hanno fatta, quindi benvengano ma non imponeteceli, dando per scontato che ogni essere vulva-dotato li preferisca a qualsiasi altra cosa (ah, no… ora che ci penso c’era anche una felpa con del sushi disegnato… ma io, dopo l’intossicazione alimentare dell’ultima volta non voglio vedere un chicco di riso avvolto da un’alga per i prossimi tre mesi).

Morale della favola (della nutrizionista): analizzando le mie vecchie analisi, facendoci due chiacchiere su quante volte mi si gonfi la pancia, comedoveeperché, è uscito fuori che ho una sorta di ipersensibilità al glutine, che con l’intolleranza al lattosio e l’allergia al nichel compone un Trio delle Meraviglie che non augurerei nemmeno a quella che mi ha scippato il ragazzo, un po’ di tempo fa (tra l’altro, proprio ieri, nel giorno dell’ammore ho scoperto che sono andati a convivere lì, nella Terra del Luppolo. Forse è meglio così, dato che non posso nemmeno guardarlo da lontano, ora, un luppolo). Il rischio, nel continuare a fregarmene e sbafanarmi etti di farina di grano duro e puro, è che a poco a poco mi vengano delle ulcere con tutto il carnet di fastidi del caso… e per quanto spesso sia stupida e autolesionista no, le ulcere non per cause alcoliche o sentimentali… no. Se proprio devo perire di stomaco, voglio perirci come il Bukowski con le tette della situazione, altrimenti niente.

Tutta questa faccenda coincide con un periodo bello nuovo, e questo mi sembra solo un tassello in più: ho promesso a me stessa che avrei sradicato alcune pessime abitudini che trascino da quasi trent’anni, e lo spirito Jovanottiano del iopenshoposhitivo che alberga in me da due lunghissimi decenni mi ha portato a cercare di capire perché anche quando mangio due biscotti al mattino mi senta male. L’ho scoperto; mi spaventa il pensiero di dover rivoluzionare tutto, ma mi emoziona anche. Se un problema reale si sta risolvendo, anche i suoi benefici reali non tarderanno a mostrarsi. E, a quel punto, saprò che ne è valsa la pena.

È sempre questione di promesse. E le promesse più difficili sono quelle che facciamo a noi stessi, prima di addormentarci; quelle che non raccontiamo a nessuno così non abbiamo nessun cazzìatore ufficiale che ci rammenti che non stiamo facendo nulla per metterle in pratica; quelle che più rimandiamo il primo passo per compierle, più ci sembrano pesanti e insormontabili.

E allora io prometto:

di rispettare questa nuova dieta, ma non mi autoflaggellerò se mi verrà voglia di un amaro a fine serata;

di perdonarmi per i miei ritardi cronici, il mio essere ostinata, il mio non arrendermi all’evidenza;

di perdonarlo, non tanto per lui, eh… ma perché io merito di pensare a tutta quella faccenda (e, allargandoci, a tutte le faccende da Piccoliproblemidicuorenatidaun’amiciziacheprofumad’ammore) con serenità, perché solo i cuori leggeri riescono a volare alto, volare oltre (e pure un po’ per lui, che alla fine non è stato proprio tutto stò Hannibal Lecter della situazione);

di silenziare il cellulare per un’ora e concentrarmi su quello che faccio, e basta;

di rifuggire dalle lamentele sterili degli altri… esistono le moleskine, non gli amici, per sfogarsi senza pietà e maturità;

di portarmi ancora, e ancora, e ancora, e ancora, a vedere casa mia dalla cima di una montagna, fosse solo la montagna che ho sempre guardato dalla mia finestra, quella che significa “sei tornata a casa“, quella di cui prima o poi mi tatuerò il profilo.

Stamattina il cielo era sgombro, non c’era una nuvola e io mi sentivo raggiante.

Marzo è vicino, e io aspetto come un’innamorata impaziente quei nuovi colori.

Il coraggio di vivere, quello, forse già c’è.

15022017
e, intanto, c’è anche una nuova playlist

Sorelle fantastiche e dove (ri)trovarle

Ci rivediamo dopo tre anni. Ci riparliamo dopo tre anni, per la precisione. Ho il cuore che mi batte più forte del normale e ho visto che quando mi sono avvicinata hai fatto uno sguardo un misto tra la paura e il sorpreso. Ho rotto il ghiaccio con il massimo dell’acidità che avevo in corpo e tu mi hai presa sottobraccio, perché lo hai sempre saputo che non so bluffare, non so giocare a poker, non so giocare a nessun gioco con le carte in realtà, se escludiamo la scopa e assopigliatutto, ma lì non serve a molto fare una faccia impassibile.

Diamo i nomi alle cose: migliore amica; sei stata la mia migliore amica per quattro lunghissimi e intensissimi anni; anni in cui mi sono innamorata, sono stata delusa, mi sono rinnamorata, ho viaggiato, studiato, ascoltato, bevuto. Tra i miei 20 e i 24 anni.

Anni che, per i successivi quattro ho cancellato, negato, odiato.

Fino alla scorsa estate; quando mi si è aperto il cuore, quando la percezione delle cose è cambiata, quando sono riuscita a guardare con occhi nuovi tutto ciò che di più familiare avessi. E sono ritornata in uno dei luoghi dell’anima più amati della mia vita. Un gruppo che avevo abbandonato proprio quattro anni fa ma che fa ancora parte di me. Lì c’eri anche tu.

Gli anni andati l’una senza l’altra, tutti gli accadimenti, voluti o no, nelle nostre vite, hanno fatto in modo che, un mese fa, io fossi sotto braccio con te, che prendessi i tuoi pensieri spaventati con la giusta e dovuta leggerezza.

Ritornare a parlare, con un imbarazzo che se va sempre più via ad ogni parola; ridere delle nostre sventure in amore, questo amore che ci ostiniamo a proiettare su qualcuno da salvare, credendo che sia l’unico modo per salvarci; del fatto che io sembri ancora una scappata di casa che quando si veste decide di non abbinare nessun colore e per non farne arrabbiare nessuno li indossi tutti e tu sei sempre la modaiola shopping-addicted di allora (ora di più, hai uno stipendio, cazzarola!); raccontare i successi, le ansie, le risalite lente ma definitive; questo è stato il mio ultimo regalo dell’anno che è appena finito e il primo di quello che è appena incominciato.

Mi piace pensare che sia successo perché tutte e due eravamo davvero pronte,

Mi piace pensare che sia successo perché doveva succedere, perché le nostre vite sono ancora legate e perché è così che dovrebbe funzionare nelle relazioni: si parla.

Io, che ho sempre investito più sugli amici che sull’amore, quando penso a tutto quello che si è sciolto con te, ne sono profondamente risollevata.

Chiudere il cerchio, farlo davvero, dirsi tutto quello che c’era da dirsi, fare in modo che succeda davvero è una fatica mentale non indifferente. Ma che soddisfazione, poi.

Ora non so come sarà. Quelle due ragazze parcheggiate in una 500 bianca a fumare e ad ascoltare Accireme sono diventate due donne strafighe che in qualche modo saranno ancora a ridere di tutto ciò che “nun è pe’ nient’ buon’…” insieme.

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una foto stupida fatta tanti anni fa di due tatuaggi che, accostati, hanno un grande significato.

(Questo post è dedicato a Lora ma non solo.

É dedicato a tutte le sorelle che ho incontrato sul mio Cammino;  a tutte quelle che porto nel mio cuore, quotidianamente, con me; a quelle che ho perso per strada; a quelle che sono ancora qui a cazziarmi, sopportarmi, ispirarmi. Chi dice che l’amicizia femminile è meno bella e sincera di quella uomo-donna è una bugiarda, e lo sa… basta aprire il cuore, e la strada sarà costellata di alleate che ti porgono una bottiglietta di acqua fresca quando senti che il sole sta picchiando forte. Io ho tante compagne di viaggio, e sono profondamente grata a loro per tutta la pazienza, l’amore e i pensieri che ripongono nei miei confronti. Non è scontato avere delle amiche così, e cerco di non dare per scontata nessuna di loro)

 

 

 

E non hai visto ancora niente

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Due nuovi tatuaggi.

I miei capelli di nuovo corti.

Tanto lavoro, troppo poco studio.

Ospedali, per la prima volta per così tanto tempo.

Gli occhi di mio nonno, la sua voce, le sue mani enormi, il suo consumarsi rimanendo in sè fino all’ultimo. E il mio cuore spezzato da qualcosa che non potrà risanarsi mai più.

Casa mia, sempre più piena, sempre meno casa mia.

I Flixbus verso il norde e gli autisti fast&furious contro ogni limite possibile e immaginabile.

Le stronzate che feriscono chi ti vuole bene da sempre, aver paura di rovinare i rapporti. Riuscire ad essere maturi una volta nella vita, ringraziando gli dei, e superare tutto.

I nuovi amici, conoscersi da poco e sembrare di essere cresciuti insieme.

Gli amari a fine serata.

Gli amici. Sempre gli amici. Li amo tutti ma non glielo dirò mai. Non serve dirglielo. La fortuna di avere questa rete che ti sorregge senza appesantirti. L’ammore che ti circonda e circola anche se non te ne accorgi (o fai finta di non accorgertene).

Le risate con Geppi, la fortuna che ci sia ancora a sopportarmi.

I discorsi infiniti in auto, le sigarette, le parole assonnate, le albe inattese.

I concerti che non riesco a contare, tanti che ce ne sono stati.

I baci, troppi o troppo pochi.

I baci e basta. Basta che baci.

Gli occhiali nuovi. E un nuovo volto con gli occhiali con cui parlare.

Le gite, gli orizzonti che non avevo mai visto, i posti dove non avevo mai dormito. Il cavallo che non avevo mai cavalcato (trauma del 2016). L’acqua salata, quella clorata e io che ci nuoto dentro perdendomi nei miei pensieri.

I progetti condivisi. La fatica, l’ansia, la frustrazione per prepararli. La soddisfazione immensa nel riuscirci, anche questa volta.

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#lmpf5 con gli occhi del bambino 

Le partenze degli altri, i ritorni attesi.

Le smorfie in foto. I giochi da tavolo. Le occhiaie accessorio autunno-inverno-primavera-estate. I sorrisi. Le persone che ho fatto sorridere. Le persone che ho fatto incazzare.

I miei malumori. L’insicurezza. La paura. Forzare le cose. Non fidarsi degli altri. Rovinare tutto. Pensare che così doveva andare. Che i punti servono perché poi si va daccapo.

Il battito del mio cuore.

Le situazioni che do per scontato. Quelle che non realizzo mai siano così scontate.

L’amore che c’è, c’è stato, ci sarà. L’amore che mi smuoverà, che mi farà raggiungere quello che devo raggiungere.

L’amore per me stessa. Per la parola scritta e per tutto ciò che rappresenta per me.

Voglio un 2017 in cui sono costante in quello che faccio. In quello che voglio fare. Consapevole che non ci sia nessun deus ex machina che appaia a salvarmi ma ci sono io, anima salva di nome e di fatto.

Poi, il resto, verrà da me.

Piccolo tassello di un puzzle più complesso.

Non mi interessa, seppur dovessi essere un pezzetto qualsiasi del cielo.

Ci sono.

 

 

 

 

Non sarò da meno (sabato sarò a Roma)

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Qualcuno, parlando di me, ha detto che ho incominciato ad essere me stessa davvero quattro anni e mezzo fa. Mi dispiace dirlo, ma ha terribilmente ragione.

Qualcuno mi ha sempre detto che “le parole provocano e fanno male più di una spada” per giustificare tutti gli schiaffi presi nella mia infanzia, pre-durante-post adolescenza, per tutte le volte che ho dato una risposta non gradita. Sono cresciuta così, a “mazz’ e panelle” dai miei genitori, forse impreparati, forse un po’ frustrati, forse avviliti, che hanno reagito a me, figlia tremenda, come avrebbero fatto i loro (anzi, i nonni avrebbero fatto di gran lunga peggio, questo lo ammetto). Non vado fiera di tutte le “botte” prese, ma col tempo ho saputo parlarne con mia mamma e mio padre, superare alcuni brutti episodi, capire, in qualche modo.

Ma capita che, se cresci con la frase “mi hai provocato con le parole” un po’ pensi che se si reagisce con uno schiaffo ad una qualsiasi frase tagliente detta nel pieno della rabbia sia normale.

É successo così anche con lui, quattro anni e mezzo fa.

Ero arrabbiata, ero frustrata, volevo far male in qualche modo a me stessa e a lui, volevo che la nostra coppia dall’andazzo morboso si esaurisse, si suicidasse, ma non avrei mai pensato così.

Col senno di poi mi sembra tutto confuso e lontano, impossibile, quasi, che sia davvero accaduto. Lui è il ragazzo perfetto, quello che piaceva a mia mamma, che studia in una buona facoltà, ragazzo “di paese”, che va in chiesa tutte le domeniche, impegnato nella vita comunitaria, iscritto perfino al PD. Per mesi ho ripetuto che la colpa era stata soltanto mia.

Invece no. Bisogna perdonare se stesse. E poi anche lui, se ti sembra sincero nel chiederti scusa, ma non starci più insieme.

Bisogna pensare che col prossimo non sarà più così; bisogna non aver paura di stare al telefono con un uomo che ti piace per più di mezz’ora perché con lui, a telefono, ci litigavi ore intere; bisogna brillare di luce propria ma permettere che questa luce si possa vedere da fuori, qualora ci fosse qualcuno che godrebbe del tuo bagliore. Perché, non sei più quella ragazza insicura di quattro anni fa, sei cambiata, e solo in meglio.

Quando ero adolescente ero interessata alle dinamiche partitiche della politica. Ora no, non più, ora sono interessata semplicemente alla politica “applicata”.

Quindi, da qui, un grande interessamento al femminismo. Un femminismo inteso come promozione di valori al di là dei pregiudizi; verso una maggiore indipendenza non tanto pratica, quanto di pensiero.

Pensare di poter stare bene anche senza un uomo al proprio fianco; di poter essere libera di camminare in strada la sera e non aver paura; poter fare benzina di notte senza trascinarmi l’amico di turno a farmi da guardia del corpo; di non essere oggetto di critiche, soprattutto da altre donne che sembra abbiano il cervello ancora inzuppato di retaggi di un mondo maschile e maschilista che non ci appartiene più.

Pensare di poter avere accesso alla pillola del giorno dopo al primo ambulatorio di guardia medica/pronto soccorso ginecologico in cui ti fermi, e non dover aspettare che passino ore e che apra il consultorio (e non è detto che nel consultorio te la prescrivino con così tanta rapidità).

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Per questo, per molti altri motivi; per me e per le donne belle e forti che conosco; per quelle che non conosco ancora; per quelle che invece si sentono nullità e non riescono a riprendersi da situazioni morbose, stressanti e pericolose; per le mie cuginette piccole, che spero vivano in un mondo sempre meno rosa ma colorato di tutti i colori che vogliono; per i bambini che spero imparino a scuola e a casa che tutti possono fare tutto; sabato sarò a Roma.

Perché voglio che non ci sia più bisogno di manifestazioni “di genere”, del genere.

Per informazioni:

https://nonunadimeno.wordpress.com/

 

Senza mani, senza piedi (e senza sellino)

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Ultimamente dormo massimo sei ore a notte, precisamente dalla prima notte in cui ti ho scritto.

Mi piace pensare che quelle ore mancanti alle mie canoniche otto siano in giro;

a far compagnia alle mie occhiaie, pronte a ricordarmi allo specchio che mi manca qualcosa;

tra le sigarette che ho fumato di notte, insieme a qualcuno, sotto casa mia prima di scendere dall’auto, quando sembra che il tempo si cristallizzi e vengono raccontate grandi verità, ci sono risate vere e piani per un domani che è già oggi;

nei bicchierini di Jageirmaster che bevo con le ragazze dietro il bancone, se la serata al club va bene, se va male, basta che sia con ghiaccio perché pure quello si mastica, mentre sto per fumarci su;

tra le parole delle canzoni che ho sempre ascoltato e che ora il mio cervello ha stabilito dovessi c’entrarci anche tu, maledetto;

tra le ruote della mia auto, tra i chilometri che ho macinato cantando per farmi compagnia, per ristabilire la mia dose quotidiana di allegria obbligatoria, mandando saluti a bambini annoiati che mi guardano dal sedile posteriore;

tra il cloro di una piccola piscina di provincia, tra il mio imperfetto stile dorso, le articolazioni che scricchiolano spaventosamente e i giorni persi da recuperare, in questa vita o in un’altra;

nei miei pensieri contorti come grovigli che si diramano dalla mia testa dura, una strana alternativa ai capelli che, ostinatamente, taglio via, quasi come se fossero loro gli unici veri colpevoli della mia confusione mentale.

Le mie ore di sonno mancanti, forse, stanno facendo compagnia alle tue, perse in altre situazioni che non mi toccano.

I pensieri, il tempo, i soldi, ognuno li spende come vuole.

Ma a me piace immaginare che in un universo parallelo ci siano due come noi che si prestano il sonno perduto. Ritrovandolo nelle medesime cose.

Vicini, in quel mondo e in quel modo.

(ricominciare a pensare di fidarsi di nuovo di qualcuno con, stavolta, uno sguardo meno miope del tuo, sembra sempre più difficile; come andare in bici con mille sadiche varianti: senza mani, senza piedi, senza sellino… e qui sò dolori)

Intanto, continuerò a perdermi in questa intricata Babilonia.

 

 

 

Pensavo fossero auguri

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Pensavo fosse pigrizia invece era pressione bassa” oggi compie due anni.

Lo festeggiamo con più di 3600 fan (inconsapevoli, mi sa) sulla pagina fb, un’ immagine logo fighissima uscita dalla matita della mia amica italo-portoghese Federica Siano e un mal di testa vomitoso appena passato (perché, per dirla con la parlata colorita di Torre Annunziata, “sacc’ sul’ che sò fracida“).

Comunque l’immagine è fighissima, non faccio altro che riguardarla, sono proprio io.

Quando la genta, quella manigolda e infigarda genta che non si fa mai gli affaracci sua, mi chiede cosa voglio fare da grande, a volte rispondo con molta nonchalance : “scrivere le mie mirabolanti avventure su un blog e guadagnarci pure”.

Ecco, dopo due anni, forse è il caso che mi ci metta davvero di impegno. Se dopo questo tempo non mi sono ancora scocciata, anzi, ne ho ancora più voglia, vuol dire che è la passione giusta. Anche se il mio masochismo autodistruttivo dice di no. Soprattutto perché il mio masochismo autodistruttivo dice di no.

Continuerò a trotterellare sul mio elefantino catanese.

Intanto grazie.

Davvero grazie a chiunque, per caso o no, sia passato qui anche solo una volta.

Come direbbe il mio nonno preferito, the Grand Master of Polpetta: “dovete campare cient’ann’ afor’ a chilli che tenite già“.

Da una Benedetta piena di ammore, di grazia e di gratitudine.

 

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Quando il cuore sanguina mettici un cerotto (però colorato)

È il mese di Aprile, sono in ritardo, come sempre, e vado, affannata, a lavorare dalla mia Clara. Mentre scatta il rosso, dall’altro lato del semaforo li vedo.

Lui e lei. Ho appena ascoltato un suo audio nel gruppo whats in cui siamo tutti insieme, o meglio eravamo, prima che fuggissi anche da quel gruppo; e non mi aspettavo di incrociarli lì.

Lui, col suo bel sorriso scintillante da ragazzino, nonostante sia un uomo, le parla e lei lo guarda distrattamente. Ovviamente non mi hanno notato e ne sono sollevata.

Scatta il verde e non mi muovo. Ci vuole il clacson dell’auto dietro per farmi ripartire; rimetto in moto con la mia bella nube di pensieri in testa fino a destinazione.

C’era una lista che avevo fatto quando, tre anni fa, l’ennesimo Ohdeidell’Olimpoluièproprioquellogiustoperme mi aveva fatto capire con il suo silenzio che io non ero quella giusta per lui, la lista delle coppie: un elenco di persone vicine a me che mi sembrava vivessero un ammore con la A maiuscola, uno di quelli belli, dove si vive insieme ma non in simbiosi, quelle coppie che da fuori ti fanno provare un po’ di invidia mista a speranza, che se il karma ha premiato loro, prima o poi la ruota girerà anche per te.

Ovviamente questa lista è una roba un po’ da psicopatica immatura, lo ammetto.

La loro coppia, quella di lui e lei, invece, da fuori non mi sembrava degna di entrarci nella lista; troppe rotture, troppi dissapori, troppa vita ai miei occhi non condivisa, troppe crepe (la domanda che ancora mi pongo è… chi cazzo sono io per poter giudicare da fuori un ecosistema così delicato come una relazione?).

In una di queste crepe mi ci sono infilata io, circa tre mesi dopo quel semaforo. Questo è un dato di fatto. Non l’avrei mai immaginato, mai davvero, eppure è successo. Quando per me era diventato un peso essere nella stessa stanza con entrambi sono esplosa e mi sono fatta avanti. Non volevo fare tutto questo rumore, volevo solo togliermi un peso, scrollarmi un dubbio, eppure ho fatto cadere le pedine del domino. Sono caduta io, è caduto lui, è caduta lei. Non lo so se sarebbero caduti ugualmente, so che sarei potuta rimanermene tranquilla con le mie mirabolanti avventure da sfigata che cerca di arrabbattare un po’ di affetto e invece si impelaga in incontri da Tinder o, peggio, ferisce persone che non avrebbe mai voluto ferire.

Ma è successo, è cambiato qualcosa e con un po’ di presunzione e ancora mille sensi di colpa inutili dal mio punto di vista, l’ho fatto succedere anche io.

Quel che dovrebbe accadere ora non lo so. Ieri ero seduta al tavolino di un bar con un’amica e parlavamo di tre compagne di corso incappate in storie da cuscinetto: tu stai con lui, state bene, poi lui rivede lei, impazzisce e ritorna con lei. Forse fa parte della sfiga dell’archeologa (o del masochismo dell’archeologa, mi verrebbe da dire, certo è che la vita faticosa ce l’abbiamo proprio per deformazione). Mi ripeto che andrà tutto bene, che andrò avanti come sempre, anche se ho provato ad installare Tinder un’altra volta ma l’ho disattivato dopo 24 ore, di nuovo. Io sono quella che si dice forte, quella che non vuole tornare indietro nonostante ci sia tornata tante volte fino ad arrivare a dei punti di non ritorno dettati dagli altri, mica da me.

So che a questo punto il mio l’ho fatto. So che è bello quanto devastante avere i pensieri concentrati su qualcuno che con te non vuole starci, per motivi ragionevoli o meno, so che in fondo rimpiango quei tempi in cui il mio cuore era come una pietra muta, incapace di pulsare. Quante volte ho invidiato chi mi era vicino e aveva un cuore pulsante per qualcuno eppure, adesso che il mio batte ad un ritmo che non riesco a controllare, mi sento persa.

Oggi, quando sono uscita dalla doccia mi sono graffiata il petto, sotto il tatuaggio, all’altezza del mio muscolo involontario. Ci ho messo un cerotto, uno di quelli colorati, per bambini, gli unici che ho e che tollero. Mi sono vista allo specchio e ho sorriso.

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Ora ho un cuore rattoppato.

Poi sono salita su, ho preso quella stupida lista e l’ho strappata.

Non devo guardare gli altri, non devo prendere le loro storie da esempio nè devo lasciarmi condizionare da quello che mi viene raccontato.

Devo solo mettere una mano sul mio graffio, ascoltare e aspettare che si risani. Da solo.

(intanto premo Play)

La sindrome della Volpe (quella che piange e quella che disdegna)

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menomale che Zerocalcare c’è

Ci sono abitudini cicliche che ritornano quando mi succede qualcosa, o meglio faccio succedere qualcosa, che sbarella i miei equilibri precari:

Tagliare i capelli, rasarmeli quasi a zero.

venerdì sono uscita con il mio amico-cuscinetto: quasi tutti ne abbiamo uno, a volte non ne è solo uno, a volte è un insieme di entità miste che fanno parte della nostra esistenza ma non così abbastanza da poterci leggere i pensieri come tutte quelle altre presenze importanti e costanti che ci circondano. Il mio amico-cuscinetto, dicevo, ha questa capacità telepatica di farsi vivo sempre nei miei momenti peggiori: una sfiga e una costanza da pochi. In una vita parallela siamo fidanzati da quattro anni, andiamo per concerti insieme e litighiamo su quale cd mettere in auto quando scendiamo a prenderci una birra; in questa siamo due malinconici che ciclicamente si rincontrano, si annusano un po’ e poi si fermano a raccontarsi le proprie sfighe odierne. In questa vita il mio amico-cuscinetto non potrà mai essere qualcosa di più perché non gli piacciono i miei capelli corti, e io non sopporto il fatto che lui non capisca che io sono una da capelli corti, che non è solo un taglio, è il mio modo di dire al mondo quello che sono, nonostante tutto.

Comunque, dicevo, quando il mio amico-cuscinetto (che, ovviamente, ha un nome ma non lo riporterò mai alla ribalta) mi dice “tu sì troppa bella ma tien’ stì capill’ a’ uomn’” a me viene l’impulso di tagliarli ancora di più, per allungare le distanze ancora un altro po’.

Comprare un anello nuovo.

avere i soldi in tasca e capitare per caso accanto ad un mercatino artiginale, pensare che cinque anelli per dieci dita siano ancora troppo pochi e comprarne un altro. Bello davvero, con una pietra grande verde e viola, i colori della speranza e della sfiga, contemporaneamente. Perché è così che ti senti ogni volta che compri un anello nuovo dopo aver avuto una delusione d’ammore: sfigata ma speranzosa che il fosso scampato sia passato definitivamente. Ci vuole tempo, ok. Ma che passi in fretta, questo maledetto.

Contattare il mio unico ex con cui ho ancora un rapporto e andarci a prendere un caffè:

A. è tanto un bravo raagazzo, se non fosse che ci siamo lasciati prendendoci a schiaffi. Durante un concerto. Davanti a quelli che poi sono diventati i miei attuali amici.

Con una fine così, chi non vorrebbe mantenere un rapporto civile, fosse solo per mondare l’ultima immagine che il pubblico, ma soprattutto noi, abbiamo del nostro ultimo saluto?

Di tanto in tanto uno di noi si rifà vivo, di solito succede una volta all’anno, e riprendere un caffè con lui è sempre divertente; vedere quello che si è diventati l’uno senza l’altro, dare giudizi spassionati e consigli che sappiamo benissimo entrambi non verranno seguiti.

È il nostro modo di dirci quanto ancora ci si voglia bene. Magari un po’. Magari in memoria di una storia strana, piena di contrasti ma anche di crescita (ma anche no). Magari perché, non lo ammetterò mai, ma mi fa piacere, davvero.

Farmi venire la Sindrome della Volpe.

C’è questa volpe, nella favola di Esopo, che non si è applicata abbastanza per arrivare all’uva (oppure, giusto per darle il beneficio del dubbio, obiettivamente è davvero tanto difficile e rischioso arrivarci) che dice che l’uva è acerba, che a lei l’uva non piace nemmeno, che l’uva non sazia abbastanza. Eccomi qui.

Mi butto a fare una cosa, però i primi aspetti che noto sono i difetti, non i pregi. Disdegno, mi illudo che l’uva è davvero tanto lontana e acerba, mi accontento di quello che trovo in giro o, peggio ancora, digiuno, magari per altri quattro anni.

Questo è quello che mi è capitato in questo mese di agosto. Questo è quello che ho il sospetto non sia capitato solo a me, ma anche alla mia uva in questione.

So che è da psicopatici parlare di sè in terza persona, ma questo agosto ho visto due idioti avvicinarsi, pieni di paure, svuotarsele addosso ste’ paure, parole, carezze, per poi ributtarsi addosso altre paure ancora.

La volpe che disdegnava aveva lasciato il posto a quell’altra mitica volpe della letteratura per l’infanzia e non: quella del Piccolo Principe, quella che si lascia addomesticare, quella che sa che per riconoscere una rosa tra mille bisogna perdervici del tempo; quella che sa che per rendere uno svampito bimbo biondo che si è perso nel deserto un amico bisogna “creare dei legami”. Non dico che sia migliore o peggiore di quella di Esopo, semplicemente che sia diversa.

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appunto, quel bimbo biondo era un po’ più che svampito.

È stato bello che la volpe di Esopo abbia lasciato il posto all’altra; non succedeva da anni e a me brillavano gli occhi. Le persone che mi conoscevano mi vedevano meno acida del solito e qualuno ha pure osato chiedermi come mai. La risposta era bella, era una di quelle che fanno sorridere te e pure chi ne ascolta la risposta.

Poi non lo so cosa è successo, non lo saprei nemmeno dire. Fatto sta che un cuore che si apre, dopo anni, dopo le millemila pippe mentali del caso, non si richiude così in fretta. E a me, in fondo, come premio di consolazione rimane quello.

Il mio cuore aperto.

E non so se nel frattempo sono ritornata in modalità Esopo, se ho ricominciato a notare tutte le nefandezze dell’uva. Non mi interessa nemmeno.

In questi giorni di agosto ho avuto dei pensieri felici, mi sono comportata da adulta, ho capito che sono quasi pronta a superare ogni vissuto da amore post-adolescenziale e ad avere un punto di vista più adulto, che, meraviglia delle meraviglie, è arrivato naturalmente.

Forse la mia uva in questione non aveva un naso da drago, un paio di occhiali e un bello sterno su cui è appoggiata da sempre una collanina d’acciaio; forse la mia uva era solo e semplicemente la mia nuova visione del poter vivere un amore (o uno pseudoamore, comunque una cosa di quelle).

E allora ci sono riuscita. Sono comunque graffiata perché non è stato facile salire e dopo averla afferrata sono caduta dalla pianta. Ma ce l’ho. E la sto mangiando. E me la faccio andare bene, non perché in questa vita bisogna accontentarsi, ma perché c’è un limite oltre il quale ti fai solo male.

E anche una volpe stupida come me lo sa.

PS: Per tutto il resto, in questi giorni ci saranno i riti: i capelli, gli anelli, i caffè. Alle volpi piacciono tanto.

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