In Amore vince chi fugge. Meglio se all’estero. Meglio ancora se in un altro continente.

la distanza
una citazione di un film di Antonioni ambientato in Sicilia come prima pagina de “La Distanza”, una graphic novel che la scorsa estate mi ha esaltato tantissimo perché pareva essere scritta sulla falsa riga delle mie mirabolanti avventure. Escluso lieto fine, ovviamente.

Quasi tutti gli appartenenti alla categoria uomini/mezziuomini/uominicchi con cui ho avuto (oppure avrei voluto!) avere a che fare, negli ultimi tempi, per qualche strano scherzo del destino, ora sono quasi tutti emotivamente e geograficamente lontano da me. Ce n’è uno che vive in altissima Italia, quasi verso il confine, uno si barcamena tra il Lazio e la Toscana, un paio sono dislocati nella bassa padana, uno è addirittura andato a fare il cervello in fuga nel bel mezzo del cammin di nostra Europa. Insomma, qui, a portata di mano e di malinconia, sono rimasti solo gli appartenenti alla categoria degli “ex felici“, quelli che nella tua testa non ricordi più neppure di esserci stata insieme e che, in fin dei conti, incontrarli per caso ti farebbe solo piacere. Gli altri, quelli di cui sopra, invece no. Gli altri li vorresti incontrare, con piacere, sotto le ruote della tua vecchia Panda, che dimostrerebbe di essere ancora l’auto bestiale di un tempo.

Non credo che i fuggitivi siano andati via perché volevano allontanarsi proprio da me, non ho avuto così tanta importanza nelle loro vite, ma ringrazio la crisi di avermeli tolti dal mio raggio di azione fisico e virtuale (perché ho perso spesso la dignità in messaggistica instantanea e non, ma l’ho fatto sempre sapendo che avrei potuto, in questo modo, fare talmente pena da suscitare un incontro dal vivo; se abiti ad almeno 200 chilometri da me, non mi conviene perdere un bel niente, mi limito nella mia finta indifferenza e tuttalpiù ogni tanto ti stalkero la bacheca, stando ben attenta a non cliccare mipiace).

A volte mi domando se sono così perché sono un’archeologa in erba o, molto più semplicisticamente, ho la “sindrome del rigattiere“: quella compulsività che ti fa accumulare biglietti-scontrini-buste-scatole per paura di dimenticare, per paura che un’altra esperienza così bella non la vivrò mai più, perché il tempo va, passano le ore e tu diventi grandi e ti fai forte e la vita è un brivido che vola via.

Balle. tutte balle.

In nome dell’unicità del tempo passato ho fatto tante cose stupide. Qualcuna si ripercuote ancora nel mio presente, me la trascino, come alibi a situazioni future “non lo vedete che sto soffrendo? non ce l’ho scritto in fronte che sono spaventata come un elefante che ha appena visto un topolino? lasciatemi stare, sono un’anima in pena sfortunata, non starò bene mai…” 

(Anche queste sono balle)

Una cosa stupida su tutte è stata quella di scemunire, st’estate, prendere un Megabus e un Flixbus (giusto per provarli entrambi in un viaggio solo) per farmi non so quanti chilometri riassumibili in qualcosa come 22 ore all’andata e 25 al ritorno (c’era più traffico) perché qualcuno un po’ di tempo prima mi aveva detto: “se esistesse la macchina del tempo io e te avremmo un’altra possibilità“…Io non sono una donna di scienza, non credo che farò mai un’invenzione in vita mia…ma mi so mettere in gioco; so dormire buona buona per tanti chilometri oppure so impiegare il tempo in viaggio per scrutare dal finestrino ogni minimo cambiamento; non ho paura di spostarmi da sola e credo di essere simpatica al dio dei viaggi, che forse mi vuole bene perché sa che viaggiare è una delle poche cose che davvero mi piace da morire.

Tornando a noi, io la macchina del tempo in quei giorni caldo-umidi di luglio gliel’avevo portata fin là, fino alla terra dei luppoli. In tutta risposta ho avuto, come canterebbe il caro De Andrè, solo qualche svogliata carezza e un po’ di tenerezza.

Ah, no…ecco: se mi ricordo bene, mi disse anche: “ma chi te l’ha fatta fare una traversata così… io non lo farei mai“.

Dopo sei mesi ho saputo che ha preso qualcosa come 4 voli diversi, attraversato almeno altrettanti fusorari per raggiungere un altro continente e passare il Natale con una giovane donzella conosciuta durante un corso di aggiornamento, ad agosto.

Cosa ci insegna questa storia?

Che mai dire mai è un cazzutissimo proverbio che ha un senso compiuto; che non bisogna sottovalutare le partecipazioni ai corsi di formazione aziendali e che, probabilmente, se le cose non sono semplici, non sono degne di nota.

Sembra una frase fatta ma…le cose che sono davvero fatte su misura per noi, in questa vita, sono quelle che vengono da sè.

Ah, e ora credo di poterlo dire davvero con la massima e piena cognitione di causa: la minestra riscaldata non è per niente più conveniente della fatica di prepararne una nuova, con nuovi ingredienti.

Per tutto il resto…A me viaggiare da sola piace da morire. Meglio se non c’è nessuno da raggiungere, stavolta.

Nessuno e niente, tranne una nuova mirabolante avventura.

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se vedete in giro una pazza con uno zaino del genere…fuggite, sciocchi!

 

 

 

 

Di linee d’ombra e muretti da scavalcare

Ho passato la mia adolescenza e post-adolescenza con amiche fisicamente simili a me: alte e ben piazzate. Piccoli dolori da niente come avere un reggiseno troppo scomodo per la nostre quinte o il mal di schiena per “la gobba da fardello” erano dolori comuni. Mi sentivo a mio agio con loro, non ero nemmeno quella con le tette più grandi.

Succede che il tempo passa, chi è simile fisicamente a volte non lo è per attitudini e modi di vedere la vita; si cresce, qualcuno è più inquieto (io), altri più tranquilli (loro), le strade si dividono. Ti ritrovi con altri amici, inquieti come te, o almeno in un modo molto più simile a quel tuo arrampicarti affannosamente alla finestra dell’età adulta.

Per me l’età adulta è come una casa in cui bisogna entrare, per forza di cose, a meno che non voglia barboneggiare in strada. Dormire in strada è anche figo se lo fai per un paio di notti ma con questo freddo non è proprio una passeggiata di salute (tralasciando il fatto che non sarebbe neppure il massimo della sicurezza).

Per quel che mi riguarda, io non sono ancora riuscita a trovare le chiavi del portoncino principale: probabilmente devo solo andare dal ferramenta a farmi un doppione, ma sono pigra e, preferisco darmi all’arrampicata: la finestra è leggermente aperta e il muretto non mi sembra così alto. Ebbene, giusto per la cronaca, ora mi trovo nell’imbarazzante posizione intermedia in cui non si può più “nè scendere, nè salire”, preda di una crisi isterica (e non c’è nemmeno una rientranza a forma di vertebra di molfetta).

roccia friabile Comunque sia, in questa compagnia di scemi illusi arrampicatori dai piedi penzolanti ci sto bene; chi è già riuscito a scavalcare il muretto è lissù e ci tende la mano, chi è ancora giù sente le nostra urla di sprono. Si sale insieme, ognuno col suo passo ma insieme.

Spesso ci ritroviamo a fare discorsi da linea d’ombra pieni di frustrazione, rassegnazione e inadeguatezza che vista da fuori mi sembra proprio una roba poetica, vista da dentro a volte, per fortuna non spesso, mi sembra dramma puro. Siamo tutti dei  sognatori, ma in questa provincia, in questa regione, in questa nazione, qui, insomma, non si campa di arte, di musica, di letteratura, di cultura in generale.

Io, per esempio, starei finendo la mia strabenedettissima triennale lavorando per pagare il mio ennesimo anno da fuori corso e le mie lezioni di inglese per ottenere una certificazione da infilare nel curriculum e migliorare la lingua. Il lavoro che faccio è abbastanza stimolante, ma non è quello della vita, per tante ragioni.

Non so cosa voglia fare da grande. So cosa non voglio essere, ma non è abbastanza.

Cerco, semplicemente, di essere ottimista, di lasciare i canali aperti, come direbbe la mia maestra di balli popolari. Non so dove sarò al riparo dal prossimo monsone ma spero di essere, nuovamente, in viaggio.

Strano è che dei miei 15 anni passati in chiesa mi ricordi precisamente solo un brano del Vangelo di Matteo, quello sulle preoccupazioni. Che creda o non creda ora, quando ripenso a queste parole il cuore mi si scioglie e mi sento immediatamente più tranquilla:

25 Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? 27 E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita? 28 E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano;29 eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. 30 Ora se Dio veste in questa maniera l’erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? 31 Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” 32 Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. 33 Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. 34 Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno. (Matteo 6, 25-34)

Al di là delle varie interpretazioni teologiche io questo pezzo l’ho sempre visto come un: “se ti comporti secondo la tua natura avrai un buon karma e supererai ogni difficoltà” e lo tengo lì, come una coperta di Linus, a scaldarmi quando il muretto da scalare mi sembra troppo alto. Potrei anche scendere e cercare il ferramenta aperto per entrare dalla porta principale ma, forse, quello non è il mio modo.

Prima cercavo il testo della canzone di Jovanotti ispirata al libro di Conrad e ho trovato questo video con degli interventi di Tiziano Terzani, di cui sto leggendo “Un indovino mi disse”, fatevi un regalo e premete play, secondo me non saranno sei minuti sprecati: